Thursday, 22 August 2019

Anna Canitano Aragno

l’antifascista

periodico degli antifascisti di ieri e di oggi
Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini • anno LX - n° 5, 6 - Maggio-Giugno 2013




Davanti al Tribunale Speciale Il diario palpitante di una giovane ragazza che ha conosciuto la galera fascista senza perdere la speranza di Anna Canitano Fui arrestata il 23 Aprile 1942 e condotta con la Mamma alle carceri di San Vittore, a Milano, dopo una lunga e minuziosa perquisizione in casa, che fruttò ai signori incaricati, oltre a una notevole perdita di tempo, tre fogli di carta. Li conservo perché mi vennero restituiti in seguito. Primo: un estratto del Corriere d’America del 4 luglio 1937 circa una dichiarazione di Mussolini a proposito del problema degli ebrei in Italia. Secondo: un foglio azzurro sul quale in Francia, precisamente a Nimes, nel ’38 annotai alcune definizioni del fascismo e del comunismo da scritte murali. Terzo: una lettera di un mio amico, con alcune righe di carattere politico. Mi venne anche sequestrato il mio personale libretto d’indirizzi. Arrivai a San Vittore con la Mamma, entrambe scortate da tre poliziotti, verso mezzogiorno. Ora di grande animazione in carcere. Fummo immediatamente separate. Dopo una sosta di circa un’ora in una stanzetta detta “Matricola” venni portata da una suora in una cella al terzo piano. Il “terzo piano”, come imparai dopo, era una specie di luogo infame della Sezione Femminile del carcere. Lì rimasi in assoluta segregazione per una quindicina di giorni in compagnia delle prime cimici (era ormai primavera), delle canzonacce, che sentivo cantare da una cella Anna Canitano (La memoria e le fotografie ci sono state fornite da Susanna Aragno) all’altra, e di alcuni bruttissimi libri che mi ero fatta subito dare per passare il tempo. I primi giorni, le prime settimane in carcere non passano mai. Il tempo sembra interminabile. Faceva ancora freddo, specialmente di notte. Seppi qualche tempo dopo che in quella cella pochi giorni prima del mio arrivo era morta una mendicante. In quei primi quindici giorni piansi, piansi disperatamente. Leggevo molto, cantavo e pregavo. Il 28 aprile subii il primo interrogatorio. Durò più di 5 ore. Un interrogatorio di quel genere credo sia utile come esercizio ginnastico della mente e delle possibilità selettive del cervello. Vince chi è più intelligente. Fui interrogata sul verbale di un compagno comunista e lo vidi anche di persona. Il secondo interrogatorio, a distanza di qualche giorno dal primo, fu più breve. Gli altri, frequentissimi, in seguito, furono su un tono sempre più blando. Negai sempre, recisamente, decisamente tutte le accuse che mi venivano fatte e stesi un verbale, per dirla con i termini tecnici, “negativo”. Finalmente in cella con la mamma Dopo cinquanta giorni dall’arresto venne l’autorizzazione perché la Mamma ed io fossimo messe in cella insieme. Il 24 giugno, di mattina, ci venne comunicato che eravamo state deferite al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Passarono altri due mesi. Caldo, cimici, ansie, attese, pensieri. Il 24 agosto ci alzammo alle 6 del mattino. Due nostre compagne di carcere subivano quel giorno il processo, a Roma. Andavano a messa nella Cappella delle suore. Non dimenticherò mai l’atmosfera triste, grigia, muta, disperata di quell’alba in carcere. Dopo poche ore ci chiamarono: c’era a interrogarci il giudice istruttore del Tribunale Speciale. L’interrogatorio fu breve. Le contestazioni precise. Le imputazioni eccessive. Eravamo imputate di associazione e di propaganda antinazionale. Articoli 271 e 272 del Codice penale. Associazione antinazionale per i rei comportava una pena da 6 mesi a 2 anni di carcere. Stessa pena per il reato di propaganda antinazionale. Il giudice era un colonnello paterno e bonario. Mi disse: “Sarebbe stato meglio che vi foste occupate di altre cose anziché immischiarvi nella politica”. Non risposi. Mi guardò. Lo guardai. Continuò l’interrogatorio. L’11 settembre partii per Roma. L’ordine di partenza venne la sera prima. Partivo io sola, senza la Mamma. Sperai ancora una volta che alla Mamma fosse risparmiato il seguito dell’avventura. Non fu così. Poche ore dopo partì anche lei. Viaggiai tra due carabinieri in uno scompartimento di terza classe “riservato”. Arrivai alla stazione di Roma alle 7 di sera. Venni condotta al carcere delle Mantellate con una Balilla. Dopo l’abituale cerimonia dell’immatricolazione e dopo aver attraversato vari cancelli arrivai alla mia sezione. Fui ricevuta dalla Madre superiora in maniera così burbera che non riuscii a evitare le lacrime. Mi misero in cella con altre due ragazze. Una slava Memorie 27 Con Giorgio Strelher, col quale lavorava in teatro condannata a 10 anni di reclusione e una compagna di Milano condannata a un anno. Il mattino dopo seppi dall’infermiera che era arrivata anche la Mamma. La slava e la mia compagna di Milano vennero mandate in un’altra sezione e io rimasi sola. 




Il cielo di Roma era azzurro La cella era pulitissima. Feci una doccia calda. A mezzogiorno la minestra era buona. Si poteva persino avere il giornale. Durante l’ora di “aria” che ci era concessa giornalmente vedevo il Gianicolo, vedevo il verde dei pini. Il cielo di Roma era azzurro. L’aria tiepida. La suora della Sezione Politica era buonissima. Passai due mesi e mezzo meravigliosi. Pensavo, cantavo sognavo, passeggiavo in su e in giù per delle ore, mi arrampicavo alle sbarre nelle notti di luna, comunicavo con la Mamma (c’era ordine di segregazione e separazione assoluta) per mezzo di stornelli e biglietti che qualche detenuta portava gentilmente. Ricevevo ogni giorno della posta. Lunghe lettere che mi parlavano di teatro, di cinema, di tutto quello che si stava facendo, di tutti i progetti per il futuro, di lavoro, di idee. Rispondevo sempre il più a lungo possibile e la corrispondenza di quel periodo mi è particolarmente cara. Il 6 novembre mi venne comunicata da un signore giovane e simpatico la data in cui era fissato il processo. Mi consegnò un plico di 7 fogli dattiloscritti. Era la carta di rinvio a giudizio. Il processo era stato fissato per il 24 novembre. Nominai mio difensore l’avvocato Domenico D’Amico. Tornai in cella allegrissima e quel giorno cantai più del solito. Il 10 Novembre venne l’avvocato per la prima volta. Il 19 Novembre compivo 22 anni. L’avvocato venne per la seconda volta. Parlammo dell’andamento dell’istruttoria, mi lesse alcuni verbali, mi raccontò delle barzellette antifasciste. Il 23 Novembre venne per la terza volta. Mi parlò del Tribunale, del Pubblico Ministero, del Presidente, del valore delle difese, delle disposizioni superiori impartite per i vari processi, delle sentenze. Era allegro. Era riuscito a salvare un ragazzo slavo dalla pena di morte. Il 24 novembre mi alzai alle 6 del mattino. Mi vestii con cura, mi pettinai. Presi un uovo sbattuto. Pregai di fronte alla finestra spalancata. Vidi la Mamma. Era calmissima. Mi disse: “Hai letto la preghiera che ti ho mandato?”. Risposi: “Sì, ce l’ho con me”. Diceva la preghiera: “Signore Iddio Santo, assisti, proteggi, benedici noi e tutti i nostri compagni in queste ore difficili. Signore Iddio Benedetto degnati di infondere nei nostri giudici la Tua luce la Tua giustizia la Tua clemenza”. Ci accompagnarono al Palazzo di Giustizia, in automobile. Nel Palazzo di Giustizia l’aula della morte C’era con noi una donna d’aspetto dolcissimo. Occhi azzurrissimi e una grossa treccia di capelli scuri intorno al capo. Andava alla Corte d’Assise. Era più di una settimana che vi andava tutte le mattine, sempre con quella stessa macchina. Passando dal carcere maschile, dove un gruppo di detenuti incatenati e ammanettati attendeva di salire su un carrozzone tutto chiuso, disse: “Il Pubblico Ministero ha chiesto 30 anni per me e 30 anni per quello lì” e mi indicò un figuro basso, brutto, sporco, con la testa quasi deforme e con un fazzoletto bianco ai polsi. Aggiunse: “L’ha ammazzata lui”. 
L’automobile fece il Lungotevere, salì, scese, scivolò in un cortile buio. Ci misero in camera di sicurezza nei sotterranei del Palazzo di Giustizia. La donna dall’aspetto dolcissimo parlava e fumava. Io pensavo al momento che avrei rivisto tutti i ragazzi. Erano passati 13 mesi dalle riunioni in casa mia e del nostro incontro sul sagrato del Duomo. Mi pettinai, mi diedi anche un po’ di cipria. Ero serena, ero allegrissima. Si aprì la porta. Chiamarono per nome e cognome la Mamma e poi me. Vidi una fila di uomini con le manette. Vidi una fila di uomini incatenati. Nella semioscurità non distinsi nessuno, non riconobbi nessuno. Mi sentii chiamare: Anna! Vidi Guido Bersellini, e ancora Anna! Vidi Luciano Bolis e tutti gli altri. Molti non li ricordavo, alcuni non li conoscevo. Su per una scaletta strettissima ci guardammo più da vicino e ci scambiammo qualche parola. Alle nove circa entravamo in aula. La pensavo più grande, più austera, più cattiva “l’aula della morte”. Dopo poco cominciarono ad arrivare gli avvocati. Cassinelli arrivò per primo e mi chiese: “È lei la Canitano?” Risposi: “Sì”. Sorridevo. Mi disse: “Non sorrida così. Per una donna in questi casi è più opportuno piangere”. Impossibile, pensai, e tornai a sorridere. 



Il processo durò circa 9 ore, con tre interruzioni di 5 minuti. Il Presidente interrogò brevemente gli imputati, vennero Memorie 28 Memorie ascoltati alcuni testi a difesa. Qualche interruzione da parte degli avvocati. Poi ecco il grande momento requisitorio del Pubblico Ministero. Lo ascoltammo attentissimamente. Ci aspettavamo di peggio. Ci guardammo l’un l’altro soddisfatti. Il Tribunale uscì. Cinque minuti di intervallo. Mangiammo cioccolato, caramelle, prugne secche. Eravamo allegrissimi. Ci sentivamo bene, veramente bene. Chiesi a un carabiniere se potevo uscire un momento. Mi accompagnò e ci inoltrammo nei sotterranei drammaticamente contorti e male illuminati del Palazzo di Giustizia. Tornai in aula. Dopo poco: un braccio che si irrigidisce, un pennacchio che si erge, un battere di tacchi e un carabiniere grida: “Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato” (per la cronaca noi lo chiamavamo il Tribulatorio Specializzato per la Distruzione della Società). Parlarono gli avvocati. Parlò per primo Giuseppe Sotgiu. Poi parlò D’Amico, con la sua aria bonaria e persuasiva. Poi Malcangi, umoristico e pungente. Poi parlarono altri senza importanza. Infine parlarono Angelucci e Comandini. Parole coraggiose contro il fascismo Due difese che non dimenticherò facilmente. Veementi, coraggiose, piene di forza, di verità, di convinzione. Il Presidente e il Pubblico Ministero si guardavano ogni tanto, agitati. La voce di Federico Comandini tuonava nell’aula e si scagliava senza remissione contro il Tribunale Speciale, la sua illegalità, l’assurdità dell’accusa, contro il fascismo, tutto contro la gioventù vile, vuota che aveva allevato. Quando terminò eravamo entusiasti. Il Tribunale si ritirò per decidere. L’attesa fu brevissima. Rientrò, preceduto dal solito grido annunciatore. Ci alzammo in piedi. Presidente e giudici avevano tutti il cappello in testa. Si irrigidirono tutti nel saluto fascista. In quell’atteggiamento la divisa fascista si faceva più prepotente, più assurda, più detestabile. Il Presidente lesse la sentenza, ci guardò e dichiarò chiusa l’udienza. Quando uscimmo era buio. Le condanne erano state lievi. Credevamo peggio. La Mamma ed io eravamo state assolte per insufficienza di prove. Montammo tutti nel carrozzone che ci doveva riportare in carcere. I ragazzi fumavano, parlavano forte. Erano tutti sereni, allegri, sicuri. Luciano mi chiese: “Hai una matita, per caso?” L’avevo in tasca e gliela diedi. Era stato condannato a 2 anni, una matita in carcere è un oggetto prezioso. Pier Luigi Tumiati mi pregò di accendergli la sigaretta. Con le mani legate non poteva. Un ragazzo slavo, Matjan Bronislav, mi pregò di andare da un suo compagno e portargli notizie. Guido mi chiese se andavo subito a Milano. Il carrozzone si fermò davanti al carcere maschile.Ci salutammo allegri e commossi. Ci stringemmo forte le mani. Baciai Guido e Luciano. “Allegri ragazzi e arrivederci a presto”. Il carrozzone proseguì fino alle Mantellate. Avevamo una gran fame. Feci le scale di corsa e arrivai alla mia sezione gridando: “Siamo state assolte per insufficienza di prove. Domani usciamo”. Mangiammo minestra, un uovo sodo, un pezzo di pollo e del cioccolato. Ci addormentammo. Passarono altri 5 giorni. Il 30 novembre venne l’ordine di scarcerazione. È una gioia che non si può capire, se non la si è provata. Dopo sette mesi e mezzo tornavamo libere. Libere e non vi dico altro. L’avventura era finita. In Questura ci diedero il foglio di viaggio con il quale dovevamo rientrare a Milano entro 3 giorni. All’Ufficio di Polizia della stazione insieme ai biglietti ci diedero 10 lire. Cinque per ciascuna. Le conservo ancora. Guardai la stazione di Roma e pensai a tutte le volte che ero partita da quei binari, che ero arrivata a quei binari. Nient’altro. L’avventura era finita. Non pensavo davvero che a distanza relativamente breve me ne sarebbe toccata un’altra, forse più emozionante. Ma questa la racconterò un’altra volta.


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